Localizzazione_Via Cesalpino 7, Milano
Anno_2011
Realizzazione_2012-2014
Superficie_430 mq
Committente_privato
Prestazione_Progettazione preliminare, definitiva, esecutiva, direzione lavori
Sobborghi nord-orientali milanesi. Nei territori del più glorioso passato industriale italiano, dove un tempo sbuffavano vapore le ciminiere della Falck, della Breda, della Pirelli sta prendendo forma il nuovo distretto della creatività milanese.
Un quartiere senza pianificazione, una città che si reinventa a partire dai grandi capannoni vuoti. Non solo nelle grandi aree succitate ma anche e soprattutto dentro quelle piccole ma numerose carcasse edilizie abbandonate a se stesse che rendono la città un ammasso edilizio in cui la tanto osannata densità è solo volumetrica.
Questo progetto di architettura attua il riuso della Fabbrica Saviotti, un’officina che produceva forni industriali, edificata a Milano all’inizio degli anni ’50, rimasta poi abbandonata dopo la morte del fondatore.
La funzione che ha assunto l’edificio dopo la riconversione è quella di ospitare lo spazio coworking “Unità di Produzione”.
L’approccio progettuale è di natura urbana: nel grande e vuoto capannone sono stati innestati elementi architettonici volti alla ricerca di una complessità spaziale che produce un processo di scoperta del luogo graduale e al tempo stesso enfatizzata.
Così mentre originariamente già dall’ingresso lo sguardo percorreva il capannone nella sua interezza, un nuovo soppalco sbarra la vista creando un rallentamento nel disvelamento dello spazio, una sorta di vestibolo che protegge l’area più interna dell’ufficio.
Su questo spazio di ingresso troneggia il carroponte originale ancora funzionante.
Originariamente i forni industriali venivano montati parzialmente nel capannone e poi assemblati definitivamente nell’androne, unico ambiente servito da carroponte.
Autentici giganti d’acciaio venivano issati sui camion proprio nel punto più stretto di tutto l’edificio!
L’immagine di queste meravigliose scatole d’acciaio sospese ha scaturito l’idea di costruire dei soppalchi in guisa di scatole d’acciaio sospese a mezz’aria.
Solo in prossimità delle due scale toccano terra con il primo gradino mentre gli ambienti sottostanti, che racchiudono i bagni, la cucina e altri ambienti di servizio, sono chiusi da astratte vetrate biancolatte.
Passati sotto il basso varco del primo soppalco si apre la grande aula voltata che in tutta la sua luminosità è paragonabile ad uno spazio aperto, ad una piazza.
La campata industriale che sorregge la volta è segnata dalla scansione delle catene preesistenti che divengono l’elemento generatore della forma: i soppalchi sono dei vassoi che iniziano e finiscono in corrispondenza della prima e dell’ultima catena.
La promenade architecturale continua attraverso una scala d’acciaio d’accesso al secondo soppalco, concepita come una soglia in cui lo spazio ancora una volta si concentra prima di aprirsi nuovamente nella luminosa sala riunioni.
Questa è dominata da un grande tavolo costruito con gli stessi elementi di cui è composta l’architettura e da un’astratta corte-giardino ribaltata in verticale, uno sfondamento prospettico verso i giardini circostanti controllato nelle visuali da lamelle di vetro acidato verticali.
Quelli che originariamente erano gli uffici della fabbrica sono stati convertiti in un piccolo appartamento destinato agli ospiti stranieri del coworking.
L’approccio estetico con cui si è affrontato il restauro dell’edificio è volutamente critico rispetto alla moda imperante di rendere le preesistenze il più possibile decadenti e dèlabrè per creare “contrasto” con il nuovo innesto architettonico.
Qui tutte le murature preesistenti sono state risanate e imbiancate, come avrebbe fatto chiunque nel caso l’edificio fosse stato nuovamente adibito ad attività industriali.